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Anche in carcere- dove il cibo distribuito dall’amministrazione
penitenziaria non è certo da guida Michelin-, con molta buona volontà,
fantasia e spirito di iniziativa, si può mangiare bene arrangiandosi
come si può. Le due ricette riportate qui sotto sono di Ruggero Perer,
un detenuto che fino a qualche settimana fa era nel carcere di Montorio a
Verona e poi è stato trasferito al “Due Palazzi” di Padova. Le abbiamo
tratte dal giornale “Il Miglio Rosso”, fatto dai detenuti della Terza
Sezione di Montorio. Perer è un uomo di grande fantasia e abilità. Con
poco niente (basti pensare che non può usare taglierine, limette-
neppure quelle da unghie- colla attacatutto e altri attrezzi) fabbrica
velieri incredibili. Con la stessa fantasia cucina in cella utilizzando
gli ingredienti che può acquistare con i suoi soldi e “ricreando” il
calore di un forno con il fornellino per fare il caffè, acconsentito in
cella. Ecco le ricette scritte di suo pugno, titolo compreso.
Il pasticcio del galeotto
Il
pasticcio del galeotto, non è un procedimento penale, nè un guaio che
porta a una condanna. E’ un succulento primo piatto che non ha niente a
che vedere con il cibo dell’amministrazione penitenziaria. Innanzi tutto
si deve preparare un buon ragù (consiglio vivamente di far rosolare
bene gli ingredienti). A parte preparare la besciamella con: latte,
burro, farina e sale. Cuocere fino ad ottenere una pastella uniforme,
possibilmente senza grumi.
Come lasagna, io utilizzo le tagliatelle
perché le lasagne non sono sulla lista della spesa, pertanto do loro una
scottata e le stendo nella pentola prima in un senso poi nell’altro
formando un primo strato intrecciato. In genere prendo spunto dalle
sbarre della finestra. Sopra metto il ragù ben rosolato, la besciamella e
un’abbondante spolverata di formaggio grana. Ripeto l’operazione 2
volte, poi metto a cuocere a fiamma bassa per 20 minuti e soprattutto
tengo ben coperto per ricreare un effetto forno.
Auguro a tutti buon appetito.
Ma che maroni alla carcerese
Può
sembrare una delle tante giornate grigie, noiose passate a rompersi i
maroni nella solita scomoda cella, in realtà con un po’ di fantasia e
buon tempo ci si può immaginare al ristorante. Con un piatto così in
tavola non darete corda alla vostra amata.
Avete una cipolla e due
spicchi d’aglio? Si, bene, aggiungete un finocchio tagliato a dadini,
mezza mela e l’ingrediente più importante, lo speck o, se preferite, la
bresaola. Poi ci vuole mezzo dado, un pizzico di peperoncino, alcune
foglie di prezzemolo. Far rosolare bene alcuni minuti con un filo d’olio
d’oliva. Aggiungete un bicchiere d’acqua e fate cuocere per 15 minuti
circa. Cotta la pasta, mi raccomando, non dimenticate il formaggio grana
perché, come dice la pubblicità, è il protagonista in tavola. Ah,
dimenticavo: se quando avete finito di mangiare la vostra ragazza se ne
fosse andata, non preoccupatevi più di tanto. Potete sempre rifarvi con
un altro piatto di Ma Che Maroni alla Carcerese.
Ruggero Perer
Sullo
stesso Miglio Rosso abbiamo trovato questa lettera scritta da un altro
detenuto, Giuseppe De Col, a un volontario, Paolo, dell’Associazione La
Fraternità di Verona che ha tenuto in carcere un corso di affettività.
Eccola. E’ un po’ lunga, ma molto bella e significativa. “Se vi è una
cosa che ho sempre cercato di fuggire, è il mio passato. Mi riporta
immancabilmente nella condizione di quel bambino che non voleva più
essere tale, che è entrato troppo precocemente in conflitto col mondo
degli adulti. So di avere un conto aperto con una parte della mia vita,
che è tensione e sofferenza, violenza e odio. La vita di un bambino che
non aveva serenità e sicurezza. Però giunge sempre un momento in cui
situazioni impreviste obbligano la persona a porsi il problema:
percorrere il sentiero della menzogna o cercare di ripercorrere e
accettare con pazienza e speranza la storia che non avrebbe mai voluto
vivere.
Lo sai Paolo come si sente un bambino di cinque anni quando
viene messo in collegio? Si sente abbandonato. Il collegio esisteva solo
per ricordarmi che avevo fatto qualcosa di male. La mia educazione alla
colpa è cominciata lì. Lì ho sentito per la prima volta dalle suore la
parola “inferno”. All’inferno andavano i bambini che non si comportavano
bene. Ai loro occhi io ero una persona cattiva, mia madre una
prostituta, mio padre malato di schizofrenia, rinchiuso in un manicomio.
Io ero il figlio del peccato e hanno fatto di tutto per non farmelo
dimenticare. Non credo che a loro sia mai venuto in mente che con
quell’atteggiamento avrebbero condizionato la mia vita.
Non ho avuto
un’infanzia degna di questo nome. L’infanzia è piena di bisogni, ma gli
adulti che mi circondavano erano troppo presi dai loro per pensare anche
a quelli miei. E così sono cresciuto in fretta. Troppo in fretta. Ho
capito abbastanza presto che la vita offre diversi modi per attirare
l’attenzione ed io ho scelto il peggiore. Grazie al tuo insegnamento,
Paolo, ho potuto ritornare in questo “luogo” di origine, l’infanzia, con
un bagaglio diverso. E’ stata una sofferta riresa di dialogo con i
conflitti che avevano lasciato profonde ferite riuscendo a ristabilire
relazioni più chiare e sensate. E’ stato un viaggio di
ri-significazione. Mi hai insegnato che è più importante il “tu”
dell’”io”. L’importanza della non violenza. Che l’uomo è, esiste,
attraverso gli altri. E solo per essi è ciò che è. E se non hai nessuno
con cui relazionarti non sei niente. Io sono se tu esisti.
Siamo
portatori di bisogni e alcuni non possono essere soddisfatti dalle cose
materiali che sono solo dei sostituti. La vera lotta da ingaggiare,
innanzitutto, è contro se stessi, contro le proprie passioni, istinti,
pulsioni. Cioè contro il proprio egoismo che affiora quando entriamo in
relazione con le persone e in rapporto con le cose: soldi, droga, sesso,
alcool. La forma più alta di felicità non dipende solo da noi, ma anche
dall’altro. Eì l’amare ed essere riamati.Una volta che una persona si
chiude, e a cinque anni non lo fa per sua scelta, è morto.
Ora posso
perdonare e soprattutto perdonarmi. Troppo fissato su me stesso non ho
saputo prendermi cura nemmeno della famiglia che mi ero fatto nel tempo.
Non sono stato migliore degli altri. Adesso so quanto sia difficile
essere Umani. Mi hai insegnato il rispetto per gli altri, per quello che
sono: miei simili. Che prima del “cosa fare” occorre sapere chi vuoi
essere. Ora so chi voglio essere e cosa devo fare per arrivarci. Non
tutto della mia vita è da gettare. Vi sono state anche cose buone. Ed è
da queste cose che voglio ricostruirla. Sapendo di non essere più solo. E
che non sono l’unico artefice del mio destino. Con affetto”.
Pino De Col
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